Che cos’è la fantasia? Quali le eventuali differenze con l’immaginazione e la creatività? Quando mi è stata
chiesta una riflessione sulla fantasia, e sulle sue differenze con
immaginazione e creatività, la mia prima tentazione è
stata quella di documentarmi su questi tre aspetti del pensiero umano,
in modo da poter dire qualcosa di serio, di ‘scientifico’.
Poi mi sono detto che forse bastava fare affidamento sulla mia
esperienza, anche in rapporto alla mia frequentazione del mondo del
lavoro (e, soprattutto, del mondo dell’industria culturale con
cui mi confronto da trent’anni) e cioè del modo in cui il
valore sociale della fantasia, dell’immaginazione e della
creatività viene messo al servizio del profitto in una
società che è appena uscita proprio da quell’epoca
industriale in cui questo processo di utilizzazione ha avuto inizio.
Si tratta dunque di riflessioni sparse, espresse come se fossero dette in una chiacchierata informale, più che scritte. Le tre parole confinano tra di
loro, a volte si intrecciano, per certi aspetti si nutrono a vicenda.
Se dobbiamo distinguerle, però, comincerei dalla creatività.
Si può essere creativi in tutto, anche nel lavoro più
umile, in quello più noioso. Si può essere creativi nel
preparare un piatto di pasta come nell’organizzare la propria
giornata e certamente la creatività aiuta a vivere meglio,
riducendo la noia e la banalità della vita quotidiana. La
creatività, dunque, potrebbe essere sinonimo di
‘originalità’ ma, al giorno d’oggi, essa
è pensata come una risorsa anche nel mondo del lavoro, un mondo
in cui è ormai praticamente tramontata la fabbrica basata sulla
catena di montaggio: quest’ultima, infatti, necessitava che il
lavoratore non fosse creativo e che, anzi, si adeguasse
all’uniformità richiesta dal modello produttivo. Nel mondo
del lavoro dei nostri giorni la creatività è invece quel
valore aggiunto messo al servizio delle direttive del personale dei
piani alti per migliorare i rendimenti e, nello stesso tempo,
gratificare il lavoratore: i classici due piccioni con una fava, insomma.
L’immaginazione
implica già, a mio avviso, un distacco dalla realtà
contingente, la capacità di trascenderla per modificarla.
L’immaginazione ha, pertanto, uno statuto diverso, una marcia in
più, potremmo dire. L’immaginazione può essere
pericolosa (si può immaginare una società diversa, per
esempio) e in ambito lavorativo essa è oggi riservata ai
‘colletti bianchi’: grafici, designer, manager, che sono
esortati ad utilizzarla perché da loro, un gradino sotto ai
nuovi padroni del vapore (oggi forse li potremmo chiamare i padroni del
software o della rete), non si ha nulla da temere, salvo qualche
possibile eccezione (un grafico che si mette in proprio, per esempio, e
che fonda una sua azienda). Ma le maestranze, però, no: forse
è meglio che si accontentino di una già più che
gratificante creatività…
La fantasia,
infine, è il livello più alto: essa implica il distacco
completo con la realtà. Nel senso comune è sinonimo di
scarsa concretezza, di inaffidabilità, ed è tollerata
solo nelle personalità artistiche, purché, prima o poi,
tali ‘artisti’ siano produttivi, creino ricchezza concreta
in chi investe su di loro, altrimenti la loro fantasia è
condannata come inutile e dannosa. La fantasia è stata il motore
più antico della cultura: i miti, le fiabe, le leggende, i
simboli, tutto ciò che organizzava l’universo anticamente,
era prodotto dalla fantasia, anche se all’epoca la si credeva
realtà. Poi, con il “disincanto del mondo”, la
fantasia rifluì quasi esclusivamente nell’arte. Oggi, nel
campo del lavoro, l’ambito della fantasia è ancora
più ristretto rispetto a quello della creatività e
dell’immaginazione: essa trova praticamente spazio solo nelle
arti di intrattenimento come cinema, televisione, fumetto, teatro,
musica, pittura, scultura, architettura, ed è premiata solo se
genera consenso e se non turba eccessivamente l’ordine sociale,
il che ha una sua logica. Che la fantasia, infatti, debba per forza
essere oppositiva all’ordine sociale è un retaggio
romantico: miti bellissimi e leggende straordinarie possono anche
legittimare, con i simboli che evocano, società asfittiche di
tipo tradizionale. In egual misura è sterile il dibattito,
sempre aperto, su quanto la tecnologia in cui siamo immersi possa
inibire la fantasia. Un bambino che riesce ad immaginare di stare
seduto su un cavallo mettendosi tra le gambe un manico di scopa non
è necessariamente più fantasioso di un bambino che usa un
dispositivo elettronico: la fantasia del primo, infatti, sarà
inibita dai limiti del mondo che quell’atto gli apre mentre
quella del secondo dalle possibilità che il software di quel
dispositivo offre, in gran parte riflesso, naturalmente, degli
interessi di chi quel software produce. La fantasia è dunque
una risorsa in sé, qualcosa che l’essere umano attiva
quando, letteralmente, ‘crea’ la realtà. Saranno i
rapporti di potere e di forza, le dinamiche sociali, i contesti in cui
è immersa a decidere i destini della fantasia, così come
sono gli stessi rapporti di potere, le stesse dinamiche sociali e gli
stessi contesti a decidere il destino di creatività e
immaginazione. Quello che conta è non tarparli alla fonte, non
impedire a chiunque di essere creativo, di avere immaginazione e,
soprattutto, di avere e sviluppare la propria fantasia: un rischio che
si corre solo quando queste componenti dello spirito umano vengono
unicamente messe al servizio della produzione e non valorizzate per il
benessere immediato che producono, per la loro funzione eminentemente
ludica che posseggono. Giovanni Vacca